Sistema bancario sotto pressione: reale crisi o panico?
Negli ultimi mesi i mercati sembrano mostrare un certo nervosismo riguardo al potenziale rischio di una crisi bancaria. E a circa quindici anni dal quel 2008, che diede il via ad una crisi le cui ripercussioni durarono più di un decennio, potrebbe sembrare giustificato. Tuttavia potrebbe essere sensato, prima di evocare specifici fantasmi finanziari, analizzare i fatti. Certo, qualcosa sta accadendo e determinate politiche monetarie adottate dalle banche centrali occidentali al fine di combattere l’inflazione hanno, di fatto, aumentato la pressione sul sistema bancario, pressione che inevitabilmente è poi emersa nei primi mesi dell’anno in corso.[1]
Ma torniamo ai fatti. Lo spettro di una potenziale crisi bancaria ha iniziato ad emergere quando, ai primi di marzo del 2023, un importante istituto bancario statunitense come la Silicon Valley Bank, da 40 anni tra i principali istituti finanziatori di startup nel settore tecnologico, ha annunciato la perdita di più di 2 miliardi di dollari in patrimonio netto. Tutto ciò per coprire in parte le perdite obbligazionarie, provocando il ritiro di depositi per un valore di 42 miliardi di dollari (un quarto del totale) e portandola verso un’amministrazione controllata prima e al fallimento poi[2].
Dopo questo evento altre banche del paese hanno mostrato una certa instabilità. Il 13 marzo è toccato alla Signature Bank di New York presentare fallimento, il terzo più grande della storia degli Usa[3], e il 17 dello stesso mese la First Republic Bank ha subìto una sorte simile. Inizialmente salvata grazie all’intervento di un consorzio bancario, ha finito per essere rilevata negli scorsi giorni da JP Morgan[4]. A questo punto si è reso necessario l’intervento della Federal Reserve e del Dipartimento del Tesoro che, probabilmente più per arginare il panico relativo ad una potenziale crisi potenzialmente più dannosa per il sistema bancario rispetto al reale rischio di insorgenza della stessa, hanno adottato misure d’emergenza in prima istanza. In tal modo hanno così garantito la copertura sull’intera cifra depositata sui conti dei correntisti di entrambe le banche, superando la garanzia di 250 mila dollari prevista e promettendo di adottare nuovamente, qualora necessario, tale provvedimento anche per istituti minori.
In ultimo la Fed ha istituito un vero e proprio programma di prestiti di emergenza che permettesse agli istituti bancari della nazione di avere accesso a della liquidità a fronte di titoli del Tesoro e mutui garantiti a livello statale a valore nominale e non di mercato. Diverso, seppur quasi contemporaneo, è lo scenario che si è prefigurato in Europa. Infatti, verso la metà di marzo sono emerse alcune problematiche di un importante istituto bancario svizzero come Credit Suisse. Tuttavia si parla di criticità preesistenti che sono emerse quando, il 15 marzo, il maggior azionista dello stesso Credit Suisse ha escluso di incrementare i propri investimenti nella società. Questo ha inevitabilmente causato un crollo delle azioni. Non prevista è stata però l’entità di tale crollo, che si è attestato intorno al 25% causando un contraccolpo anche di altri istituti europei.[5]
Ma anche in questo caso gli interventi a supporto sono stati quasi immediati e già il giorno seguente Credit Suisse ha annunciato un prestito di 54 miliardi di dollari dalla Banca Nazionale Svizzera e il riacquisto dei propri debiti facendo risalire, in parte, il prezzo delle azioni. Nel frattempo anche la Bank of England e la Bce si erano mostrate disposte a fornire, in caso di necessità, misure di sostegno. Operazione, quest’ultima, resa poi non necessaria grazie all’intervento di UBS, che ha acquisito la banca in crisi con uno sconto del 60% e un sostegno pari a 100 miliardi di franchi da parte della BNS, oltre ad una garanzia sulle perdite di 9 miliardi.
Come visto, dopo ogni recente fallimento o rischio bancario, proprio in virtù di quanto successo nel 2008 ma non solo, i governi e le banche centrali sono prontamente intervenuti con misure tampone. Cosa è cambiato da allora? E perché secondo gli analisti non c’è un vero e proprio rischio che si possa ripetere quanto successo quindici anni fa? Se da una parte è infatti vero che l'inflazione nelle economie sviluppate è ora molto alta e che le banche centrali hanno difficoltà a gestirla, è altresì vero come questo non sia necessariamente un sintomo che all’orizzonte ci sia una crisi bancaria di proporzioni bibliche. Basti pensare che prima del crollo di Lehman Brothers nel 2008 l'inflazione di fondo era bassa e aveva una tendenza al ribasso da diverso tempo. A fare la differenza allora fu il fatto che il sistema finanziario fosse molto esposto al settore immobiliare.
Ma la regolamentazione finanziaria è stata notevolmente rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008[6], in seguito alla quale il settore bancario e assicurativo è stato sensibilmente potenziato dalle misure adottate a livello mondiale. Anche in caso di una nuova grande banca che mostri una fragilità fino ad oggi passata inosservata, quest’ultima dovrebbe essere veramente enorme per impensierire seriamente il sistema bancario internazionale. Tutto ciò tuttavia non deve far sottovalutare un rischio, seppur diverso ma altrettanto pericoloso, per le banche e il sistema bancario: la componente umana e il panico finanziario. La mancanza di fiducia degli investitori potrebbe infatti causare non pochi problemi sui mercati. Si pensi ad esempio al fatto che, nonostante il salvataggio operato nei confronti del Credit Suisse da parte del governo e di Ubs, quest’ultima, dopo un’iniziale ripresa in Borsa, ha registrato nell’ultimo trimestre una perdita di depositi per circa 60 miliardi a dimostrazione della scarsa tranquillità di correntisti e investitori.[7]
Riepilogando, che nei prossimi mesi o anni si verifichi una crisi bancaria vera e propria è improbabile. Quello che invece potrebbe finire per avere conseguenze molto più tangibili sull’economia è il panico generato dal timore che questo accada. Infatti, questo spingerebbe gli stati e le banche centrali ad una regolamentazione più severa sul sistema bancario e questo al fine di tranquillizzare i mercati. Tutto ciò finirebbe però per avere ripercussioni sull’offerta del credito da parte delle banche. Le stesse finirebbero per essere meno propense al finanziamento, limitando da una parte l’avvio di nuove startup e dall’altra il sostegno alle imprese, innescando conseguentemente un circolo vizioso in cui le imprese rischierebbero di divenire insolventi con ripercussioni sul mercato stesso e quindi sui consumi, sui cittadini e, ancora una volta, sulle imprese.
Ma torniamo ai fatti. Lo spettro di una potenziale crisi bancaria ha iniziato ad emergere quando, ai primi di marzo del 2023, un importante istituto bancario statunitense come la Silicon Valley Bank, da 40 anni tra i principali istituti finanziatori di startup nel settore tecnologico, ha annunciato la perdita di più di 2 miliardi di dollari in patrimonio netto. Tutto ciò per coprire in parte le perdite obbligazionarie, provocando il ritiro di depositi per un valore di 42 miliardi di dollari (un quarto del totale) e portandola verso un’amministrazione controllata prima e al fallimento poi[2].
Dopo questo evento altre banche del paese hanno mostrato una certa instabilità. Il 13 marzo è toccato alla Signature Bank di New York presentare fallimento, il terzo più grande della storia degli Usa[3], e il 17 dello stesso mese la First Republic Bank ha subìto una sorte simile. Inizialmente salvata grazie all’intervento di un consorzio bancario, ha finito per essere rilevata negli scorsi giorni da JP Morgan[4]. A questo punto si è reso necessario l’intervento della Federal Reserve e del Dipartimento del Tesoro che, probabilmente più per arginare il panico relativo ad una potenziale crisi potenzialmente più dannosa per il sistema bancario rispetto al reale rischio di insorgenza della stessa, hanno adottato misure d’emergenza in prima istanza. In tal modo hanno così garantito la copertura sull’intera cifra depositata sui conti dei correntisti di entrambe le banche, superando la garanzia di 250 mila dollari prevista e promettendo di adottare nuovamente, qualora necessario, tale provvedimento anche per istituti minori.
In ultimo la Fed ha istituito un vero e proprio programma di prestiti di emergenza che permettesse agli istituti bancari della nazione di avere accesso a della liquidità a fronte di titoli del Tesoro e mutui garantiti a livello statale a valore nominale e non di mercato. Diverso, seppur quasi contemporaneo, è lo scenario che si è prefigurato in Europa. Infatti, verso la metà di marzo sono emerse alcune problematiche di un importante istituto bancario svizzero come Credit Suisse. Tuttavia si parla di criticità preesistenti che sono emerse quando, il 15 marzo, il maggior azionista dello stesso Credit Suisse ha escluso di incrementare i propri investimenti nella società. Questo ha inevitabilmente causato un crollo delle azioni. Non prevista è stata però l’entità di tale crollo, che si è attestato intorno al 25% causando un contraccolpo anche di altri istituti europei.[5]
Ma anche in questo caso gli interventi a supporto sono stati quasi immediati e già il giorno seguente Credit Suisse ha annunciato un prestito di 54 miliardi di dollari dalla Banca Nazionale Svizzera e il riacquisto dei propri debiti facendo risalire, in parte, il prezzo delle azioni. Nel frattempo anche la Bank of England e la Bce si erano mostrate disposte a fornire, in caso di necessità, misure di sostegno. Operazione, quest’ultima, resa poi non necessaria grazie all’intervento di UBS, che ha acquisito la banca in crisi con uno sconto del 60% e un sostegno pari a 100 miliardi di franchi da parte della BNS, oltre ad una garanzia sulle perdite di 9 miliardi.
Come visto, dopo ogni recente fallimento o rischio bancario, proprio in virtù di quanto successo nel 2008 ma non solo, i governi e le banche centrali sono prontamente intervenuti con misure tampone. Cosa è cambiato da allora? E perché secondo gli analisti non c’è un vero e proprio rischio che si possa ripetere quanto successo quindici anni fa? Se da una parte è infatti vero che l'inflazione nelle economie sviluppate è ora molto alta e che le banche centrali hanno difficoltà a gestirla, è altresì vero come questo non sia necessariamente un sintomo che all’orizzonte ci sia una crisi bancaria di proporzioni bibliche. Basti pensare che prima del crollo di Lehman Brothers nel 2008 l'inflazione di fondo era bassa e aveva una tendenza al ribasso da diverso tempo. A fare la differenza allora fu il fatto che il sistema finanziario fosse molto esposto al settore immobiliare.
Ma la regolamentazione finanziaria è stata notevolmente rafforzata dopo la crisi finanziaria globale del 2008[6], in seguito alla quale il settore bancario e assicurativo è stato sensibilmente potenziato dalle misure adottate a livello mondiale. Anche in caso di una nuova grande banca che mostri una fragilità fino ad oggi passata inosservata, quest’ultima dovrebbe essere veramente enorme per impensierire seriamente il sistema bancario internazionale. Tutto ciò tuttavia non deve far sottovalutare un rischio, seppur diverso ma altrettanto pericoloso, per le banche e il sistema bancario: la componente umana e il panico finanziario. La mancanza di fiducia degli investitori potrebbe infatti causare non pochi problemi sui mercati. Si pensi ad esempio al fatto che, nonostante il salvataggio operato nei confronti del Credit Suisse da parte del governo e di Ubs, quest’ultima, dopo un’iniziale ripresa in Borsa, ha registrato nell’ultimo trimestre una perdita di depositi per circa 60 miliardi a dimostrazione della scarsa tranquillità di correntisti e investitori.[7]
Riepilogando, che nei prossimi mesi o anni si verifichi una crisi bancaria vera e propria è improbabile. Quello che invece potrebbe finire per avere conseguenze molto più tangibili sull’economia è il panico generato dal timore che questo accada. Infatti, questo spingerebbe gli stati e le banche centrali ad una regolamentazione più severa sul sistema bancario e questo al fine di tranquillizzare i mercati. Tutto ciò finirebbe però per avere ripercussioni sull’offerta del credito da parte delle banche. Le stesse finirebbero per essere meno propense al finanziamento, limitando da una parte l’avvio di nuove startup e dall’altra il sostegno alle imprese, innescando conseguentemente un circolo vizioso in cui le imprese rischierebbero di divenire insolventi con ripercussioni sul mercato stesso e quindi sui consumi, sui cittadini e, ancora una volta, sulle imprese.